Beni di consumo nel mirino del climate change

24 Lug 2019
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Le società di beni di consumo hanno in genere basse intensità di emissione di Co2. Eppure il settore non va sottovalutato. «Se analizziamo la sua catena di valore, in altri termini, le aziende con le quali interagiscono le società di beni di consumo per la produzione, il trasporto e la distribuzione dei loro prodotti, il quadro finale è diverso», spiega Julie Moret, a capo degli investimenti Esg di Franklin Templeton. Secondo un report di Cdp citato da Moret, quando si considera la catena di valore, il settore dei beni di consumo è responsabile di quasi un terzo delle emissioni globali. In gran parte, ciò è imputabile al ruolo svolto da generi alimentari e agricoltura nel fornire le materie prime per i beni di consumo. «I rischi concreti del cambiamento climatico, ad esempio quelli associati al riscaldamento e allo stress idrico − dice Moret − possono perturbare la fornitura di materie prime agricole. Possiamo quindi presumibilmente attenderci restrizioni continue sulle risorse e volatilità dei prezzi per le materie prime sulle quali si basa l’attività di queste società».

Lo stress idrico in particolare può perturbare l’attività dei produttori di articoli per la casa e l’igiene personale, non soltanto nella fase di produzione, bensì anche in quella fase del consumo. I prodotti di queste società, quali ad esempio detersivi per la biancheria e articoli per la cura personale, richiedono un consumo intensivo di acqua nella fase di utilizzo, per cui l’impatto su tali società potrebbe essere significativo qualora in futuro i loro mercati di vendita dovessero risentire dello stress idrico.

Lo stress idrico è quindi per Franklin Templeton uno dei fattori più importanti sotto lo scrutinio dei suoi analisti per assicurare che il portafoglio non debba risentire di uno stress dovuto a una siccità o un’inondazione globale. Secondo il gestore, le società stanno iniziando a considerare l’uso dell’acqua ma «manca una coerenza degli approcci». La questione, nell’esperienza dell’asset manager, è presa in considerazione dalle società investment-grade, «mentre le società high yield (con rating di credito più bassi) danno abitualmente meno importanza a quest’aspetto e tendono a concentrarsi maggiormente sugli utili realizzabili nel breve termine».

Per Franklin Templeton vi è un numero ristretto di società leader nell’innovazione e nel risk management per quanto riguarda la sostenibilità. Allo stesso tempo il gestore riconosce un’assenza di coerenza e informativa e la persistenza di certe vulnerabilità. «In qualità di investitori − conclude l’asset manager –, non cerchiamo necessariamente i primi della classe nella pratica dei principi Esg, ma quello che preferiamo vedere è un’intenzione pratica di promuovere il miglioramento. Ciò che ci interessa di più è la rapidità con cui la sostenibilità passerà all’ordine del giorno. Quando questa comincia ad accelerare, indica abitualmente l’effettivo impegno del management. È allora che vediamo un solido caso d’investimento».

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