una ricerca di credibilità senza esclusione di colpi

L’inutile battaglia tra label sostenibili

28 Feb 2022
Editoriali Companies & CSR Commenta Invia ad un amico
Il sistema della sostenibilità vive il paradosso di non avere modelli di certificazione riconoscibili. Da qui la corsa a legittimarsi tra etichette, che ha generato polemiche in settimana sulle B Corp. La prospettiva è che il mercato ne comprenda il valore relativo

Una interessante riflessione, pubblicata su Reuters qualche giorno fa, fotografa la situazione di paradosso in cui si trova il modello Esg. C’è un sistema che deve riallinearsi a nuovi canoni e principi, senza che ci siano i soggetti in grado di certificare la solidità dei percorsi di riallineamento di coloro che compongono il sistema. Una situazione che sta alimentando l’attività delle grandi società di consulenza e certificazione, le quali, per contro, ammettono in modo chiaro di trovarsi in deficit di know how. In altre parole, per quanto le big investano nell’assunzione di risorse, dichiarano di non avere un vero framework da seguire, consigliare e monitorare.

Attenzione, non solo il modello degli Esg si sta sviluppando in una dimensione senza standard di riferimento. Ma, in questa assenza di regole, il mercato non ha ancora sviluppato la coscienza per individuare chi può sopperire alla vacatio, cioè il nuovo soggetto cui affidarsi per cercare una legittimazione. La conseguenza è che, da un lato, c’è una torta ricchissima per i soliti noti di ieri, i grandi della certificazione che portano con sé, nel nuovo campo di gioco, l’autorevolezza costruita nei precedenti ambiti di applicazione. Ma, al di sotto di questi pure onnipresenti e onnivori colossi, c’è un mondo anche più sterminato che è terra di nessuno.

TUTTI CONTRO TUTTI

E, qui, la lotta è davvero tutti-contro-tutti

Un esempio, piuttosto emblematico, riguarda la recente pubblicazione, da parte di un importante quotidiano italiano, di un approfondimento dedicato alle B Corp. Da un lato, l’inserto ha indubbiamente portato visibilità alle aziende certificate dal network. Dall’altro, ha però alimentato critiche piuttosto accese, generando più di un’ombra sull’operazione. Le accuse hanno puntato il dito su un tono ritenuto un po’ troppo manicheo: le B Corp (associate, peraltro, in modo erroneo alle società benefit) vengono presentate come modello di sostenibilità, senza il minino spazio al dubbio che questo sia “un” modello, non “il” modello (e a tal proposito vale la pena rileggere la riflessione Società Benefit, quale ruolo? In prospettiva, “solo” comunicazione).

Per conseguenza, il resto del mondo sostenibile ha reagito. E, talvolta, piuttosto duramente, rimarcando, ognuno per la propria parte, l’esistenza di altri sistemi di certificazione e, quindi, di altre etichette. Nella bagarre, c’è anche chi ha alzato il tiro, elevando al quadrato il problema originario: per capire quale etichetta è più autorevole, è la tesi, serve il certificatore del certificatore. In tal modo, si assegna a un ente superiore, nel caso specifico l’ente di accreditamento italiano (Accredia), la responsabilità di giudicare chi può, a sua volta, assegnare uno standing Esg.

In realtà, la faccenda dell’accreditamento è una cosa assai meno lineare. Accredia nei tempi recenti ha registrato una crescita delle domande relative ai framework di sostenibilità, incluse le richieste relative a modelli di rating Esg per pmi (sul tema, è previsto un approfondimento sul numero in uscita di ESG Business Review). Tuttavia, il problema rimane. Essere accreditati non significa poter rilasciare certificazioni che meglio riflettono la sostenibilità. Così come non essere accreditati non significa essere incapaci di valutare la sostenibilità di un’azienda.

A complicare la situazione, c’è poi l’assenza di una giurisprudenza sulle label sbagliate: cioè, manca anche l’aspetto sanzionatorio, fattore anch’esso che potrebbe guidare il mercato. Certo, c’è l’idea di reato, il greenwashing, e finora questa idea si è tradotta in condanne antitrust sui claim etici. Ma, come denunciato due settimane fa dall’Esma, la Consob europea, si sente terribilmente la mancanza di una definizione normativa di greenwashing, la quale consentirebbe di delineare meglio anche le responsabilità nella certificazione.

IL RISCHIO DELLA SUPER LABEL

Insomma, è il caso di prendere atto che creare classifiche tra le diverse label di sostenibilità è un esercizio piuttosto scivoloso. L’attuale confusione è fisiologica in un mercato che sta cercando sistemi di legittimazione, prima ancora di aver del tutto compreso cosa c’è da legittimare. Questa situazione porta al pericoloso paradosso per cui la sostenibilità è identificata alla label. Mentre dovrebbe essere il contrario, ovvero la label identificare una specifica tipologia di sostenibilità del soggetto.

Ci si deve attendere una simmetria con quanto sta accadendo con i cugini maggiori delle label, i rating Esg. Mentre una ancora notevole parte del mercato li insegue come totem della sostenibilità, ossia come unici e principali indicatori della qualità Esg di un asset, i grandi investitori, cioè quelli maggiormente attrezzati nella comprensione della sostenibilità, ne ha compreso la più prosaica e operativa verità: sono strumenti che aiutano a comporre l’identità Esg di un’azienda. Sono i tasselli. Non l’intero mosaico.

L’AMMAINABANDIERA

Questo è ciò che accadrà anche con certificazioni e label di varia natura. Ci saranno spintoni, sgambetti, denunce e accuse, nel tentativo di primeggiare in classifica.

Poi, un giorno, il mercato capirà che l’identità ESG è qualcosa di diverso dalla bandiera alzata sull’azienda, o dalla medaglia in mostra sul petto. Bensì, è un mosaico elaborato e aggiornato di continuo nelle stanze più intime, dalle quali prendono poi colore tutte le pareti dell’universo aziendale.

Ecco che non solo cesserà la guerra delle label. Ma l’auspicio è che le label stesse perderanno ragione di essere issate sul pennone più alto.

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