riflessione sul ruolo del Csr manager nella complessità Esg

Informativa “non finanziaria” e reporting di sostenibilità: una professione per il cambiamento

6 Apr 2020
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Marco Stampa*, sustainability manager di Saipem, esamina la situazione a 3 anni dalla Dnf. La complessità dei dati impone l'analisi di materialità. E i Csr manager «hanno in mano a pieno titolo  la leadership della discussione»

Da un’esperienza professionale più che decennale nel reporting di sostenibilità e dopo tre anni dall’entrata in vigore del D. Lgs. 254/2016 sull’“informativa non finanziaria”, si vuole fare il punto su questo primo ciclo di implementazione del Decreto: alcune considerazioni e valutazioni sulle tendenze emerse in tema di rendicontazione agli stakeholder sugli aspetti del business che stanno diventando sempre più centrali nelle strategie e conseguentemente nella comunicazione delle aziende.

La contemporaneità del dibattito sugli scenari della transizione energetica e sulle conseguenze del cambiamento climatico sta contribuendo a rendere ancora più attuale questa materia e a farla uscire dal perimetro degli addetti ai lavori.

Volendo fare una sintesi grossolana, prima dell’entrata in vigore del Decreto il mondo delle imprese si divideva, nei confronti degli stakeholder interessati ai temi di sostenibilità, sostanzialmente in due insiemi.

Il primo insieme era quello delle imprese di grandi dimensioni per dipendenti e fatturato, internazionalizzate, operanti in settori sia ad alto impatto ambientale e sociale che ad elevato potenziale tecnologico. Queste imprese globalizzate e/o molto radicate in diversi territori hanno iniziato a fornire informazioni agli stakeholder secondo approcci via via sempre più strutturati e standardizzati condivisi dal 2000 in poi dalla comunità degli specialisti, come il Global Reporting Initiative che ha iniziato a improntare la presentazione delle perfomance in campo ambientale, sociale, di sicurezza, di gestione delle risorse e della catena di fornitura e di etica del business. Non sempre l’innesco di queste buone pratiche internazionali è stato dovuto a fattori positivi. In qualche caso è stata una reazione a momenti di crisi nei rapporti con l’opinione pubblica, gli investitori, le autorità o le comunità locali. Anche nelle imprese più avanzate chi ha cominciato a trattare e proporre una rendicontazione sulla “triple bottom line” alla fine degli anni 90 aveva la sensazione di promuovere un po’ in un deserto fatto di scetticismo, mancanza di cultura sociale e di visione di lungo termine da parte di amministratori e management, caratterizzato da atteggiamenti al più reattivi verso le pressioni esterne o da un approccio “filantropico” e di responsabilità sociale, all’interno del quale il reporting verso gli stakeholder assolveva a un ruolo compensativo degli impatti “naturalmente” generati dal business. Come sappiamo di strada ne è stata fatta molta nel frattempo.

Il secondo insieme era rappresentato da quelle imprese di dimensione per lo più medio-piccola, a volte operanti in settori di impatto significativo, sia positivo che negativo per il contesto territoriale di riferimento, che però non erano confidenti con la pratica di comunicare strategie, programmi e performance per i più svariati motivi: platea di stakeholder non completamente interessati a questi temi, orizzonti di mercato ristretti, preoccupazioni legate ai costi, un certo provincialismo degli assetti proprietari da capitalismo familiare legati magari al territorio ma non molto aperti al “nuovo”, risorse e competenze interne limitate ecc.

Senza volerne esagerare la funzione maieutica, rispetto a queste esperienze il D.lgs. 254 ha rappresentato, recependo la Direttiva UE in materia, una specie di cesura storica che permette oggi di osservare empiricamente alcuni fenomeni.

Alcune di queste rilevazioni sono in parte supportate dai risultati di una ricerca condotta dal Gruppo di Lavoro DNF del CSR Manager Network (CSR MN), focalizzata su un campione delle circa 200 aziende italiane che hanno pubblicato DNF negli anni fiscali 2018-2019. La survey era focalizzata su diversi aspetti qualitativi dei processi di reporting e predisposizione delle DNF.

Primo fenomeno: i “best in class” (cioè gli operatori più virtuosi), da un lato vedono finalmente riconosciuta a livello di reputazione la pregressa esperienza, con la sostenibilità che è entrata a far parte della mission aziendale, delle strategie, degli obiettivi, dei processi decisionali e della comunicazione in senso lato. Ma dall’altro rimangono isolati in un panorama di appiattimento del livello qualitativo medio che, come anche riferito da analisi svolte in varie sedi sulle DNF dei soggetti obbligati, non è eccelso e il numero di DNF volontarie è molto limitato (5% del campione CSR MN).

Secondo fenomeno: si osserva, specie nelle realtà più strutturate, un aggravarsi dei carichi di lavoro perché spesso gli adempimenti burocratici aumentano e in qualche caso si duplicano focalizzandosi su aspetti di compliance interna ed esterna in ordine al livello di responsabilità attribuito ai soggetti convolti: un esempio classico è il dibattito sui livelli di assurance esterna e di controllo interno dei dati rappresentati nelle DNF e nei Report di sostenibilità che non dovrebbe mai essere sganciato da un approccio costo-beneficio del processo e dal reale valore aggiunto fornito dall’iter di verifica. Per essere chiari: quasi nessuno tra i vari attori del processo sta pensando oggi a un’estensione dell’attuale livello di assurance dei dati non finanziari, in ragione della assoluta non sostenibilità dei costi e degli impatti organizzativi sulle funzioni coinvolte in processi di reporting che assorbono decine di giorni/uomo e dello scarso valore aggiunto che porterebbe su quei sistemi (ove esistenti) già molto strutturati di reporting e controllo interno. I pochi propensi a disporre di una reasonable assurance nel futuro (solo il 15% del campione CSR MN) forse non considerano prioritaria un’accurata analisi costo-beneficio.

Infatti, oltre ai costi esterni, una stima conservativa dell’effort per eventuali attività di reasonable assurance di una grande azienda complessa con attività sparse in vari territori e decine di KPI rendicontati è stimabile tra le 25 e le 50 volte quella di una limited assurance con la conseguente attribuzione anche di costi interni di personale per lo più manageriale, senza contare l’impatto organizzativo su funzioni e attività operative già molto impegnate su temi di compliance. In proporzioni minori questo può valere anche per aziende medio-piccole. Forse il problema è a monte, come si cercherà di spiegare più avanti: maggiore trasparenza e più esteso utilizzo del concetto di materialità.

Terzo fenomeno: le aziende fino a quel punto meno organizzate cominciano ad affrontare il tema, in qualche caso beneficiando delle lesson learned dei primi della classe (magari posizionati come clienti nella catena di fornitura) e in qualche caso muovendo genuini passi verso una nuova ottica di business, magari con affanno e con qualche supporto esterno per salvaguardare il rispetto della normativa ed evitare di incorrere in sanzioni, ma anche con l’idea di cogliere delle opportunità.

Quarto fenomeno: si crea (o si amplia) un nuovo business per il mondo della consulenza volto a offrire servizi, a volte di reale valore aggiunto a volte francamente no, per mettere tutte le aziende al passo, magari per prime quelle che privilegiano l’aspetto comunicativo della sostenibilità a scapito della sostanza delle strategie e dei programmi.

Quinto fenomeno: una gran parte delle DNF pubblicate nel 2017-2018 (si tratta del 68% del campione della survey CSR MN) è stata gestita da team di “professionisti della sostenibilità” alcuni dei quali presenti da tempo in azienda, antesignani di un’informazione trasparente, completa e in molti casi già “certificata” (il 65 % dei report pubblicati prima che il Decreto entrasse in vigore era già dotato di assurance volontaria). La ricerca del CSR MN ha messo in luce che la materia “non finanziaria” che era ristretta ai professional pionieri nelle decadi precedenti ha visto un sempre maggiore coinvolgimento di altri soggetti professionali interni ed esterni alle aziende, conseguenza inevitabile della maggiore visibilità del tema ma anche fonte di interesse perché la trasversalità delle informazioni che devono essere rendicontate finalmente entra dalla porta principale nei processi decisionali con il supporto delle altre funzioni aziendali (Investor Relations, Finanza, HR, HSE, Procurement, Relazioni Istituzionali, Legale), e non rimane più confinata tra i volontari di quella che inizialmente si chiamava “responsabilità sociale” e oggi viene finalmente intesa come “sostenibilità del business”. Sul fronte esterno sono recentemente entrati in gioco vari professionisti e le loro associazioni quali dottori commercialisti, auditor, direttori finanziari ecc. il cui arrivo è più che benvenuto, poiché tutti i contributi saranno utili per migliorare la qualità della comunicazione agli stakeholder purché sia chiaro di cosa stiamo parlando.

Sesto e ultimo fenomeno (almeno per quanto riguarda questa breve discettazione) è rappresentato da un paradossale ma ahimè inevitabile effetto. Si amplia, complici le nuove forme di comunicazione “social” e digitale e il forte interesse del mondo dell’informazione per tutto ciò che è “di moda”, il cosiddetto “rumore di fondo”, cioè gli interventi non informati, le discettazioni a volte superficiali, specie da parte di chi percepisce nella norma una costruzione di facciata e si erge a paladino di un, peraltro auspicabilissimo, modello nuovo di produzione e rapporto con gli stakeholder, misconoscendo in maniera un po’ ideologica (nel senso marxiano del termine) il gran lavoro fatto in precedenza dai pionieri della sostenibilità ed ergendosi ad alfiere della discontinuità. Gli esempi anche in Italia purtroppo non ce li siamo fatti mancare, ahimè anche di parte accademica. Va ribadito che il Decreto 254 non è stato certamente l’“anno zero” dell’informativa non finanziaria (il 75% del campione della ricerca CSR MN pubblicava già report prima dell’avvento del Decreto e circa la metà lo faceva da dieci anni o più!), questo almeno concediamocelo. E i Bilanci di sostenibilità e le DNF, almeno quelle costruite con sistemi di reporting solidi e affidabili, non sono affatto degli “esercizietti di rendicontazione” come qualcuno ha un po’ superficialmente sentenziato, ma lavori complessi e faticosi che presuppongono competenze, anni di esperienza e anche una certa passione per la materia in sé.

Ora, nel caso dell’informativa “non finanziaria”, le riflessioni da fare sarebbero anche di altra natura e investono alcuni aspetti complessi. Improvvisamente si è riconosciuta l’importanza della professione “sustainability” che ha gettato per lunghi anni le basi della reportistica di sostenibilità interna alle aziende. Ora spingendo in qualche caso virtuoso a istituire in azienda anche il retroterra dei “sistemi di controllo” dei dati stessi e dei requisiti che ne garantiscono l’affidabilità e la credibilità nel momento in cui vengono comunicati all’esterno, analogamente a quanto avviene per l’informativa finanziaria.

Ma la complessità tecnica, la disomogeneità rispetto alle variabili finanziarie e la difficoltà di andare e rilevare e verificare all’origine informazioni che non sono sempre fornite dalle stesse entità legali (basti pensare ai dati ambientali, al calcolo delle emissioni in atmosfera basate su fattori di emissione, ai parametri sulla salute dei lavoratori, agli impatti sociali, alla delimitazione della sfera di responsabilità per il rispetto dei diritti umani e del lavoro nella catena di fornitura e nel perimetro delle operazioni, per non parlare della quantificazione del “valore condiviso” che rappresenta una frontiera affatto banale di studio) fa sì che questa evoluzione del mestiere, di grande interesse manageriale e metodologico, non sia completamente delegabile a soggetti esterni o ad altre professionalità che non hanno né una vista trasversale dei temi non finanziari o non hanno avuto storicamente dimestichezza con il significato e la gestione di questi dati.

I dati non finanziari hanno per l’appunto altra natura, origine, gestione, caratteristiche e rilevanza. Hanno delle implicazioni che si portano dietro tecnicalità in parte ancora da approfondire, sono soggetti a interpretazioni semantiche specie se li si lega al concetto di materialità e se si customizzano alcuni indicatori come quelli legati al cambiamento climatico o alla gestione delle risorse umane.

L’analisi di materialità ha ripreso il ruolo importante che le spettava, non tanto e non solo perché indirettamente prescritta dal Decreto (attraverso l’adeguamento agli standard di rendicontazione riconosciuti), quanto perché processo alla base di tanto del lavoro da svolgere sui temi di sostenibilità: piani, obiettivi, contenuti della comunicazione, analisi di rischio, eventi di engagement. Se un tema non ha l’etichetta di “materiale” non è da mettere in un Report o in una DNF, in un tavolo di discussione, in un piano e nei suoi obiettivi e neanche nei processi di verifica esterna.

Questa analisi e la metodologia che la sottende è al centro del processo di rendicontazione ed è stato senz’altro un effetto positivo l’averla rivalutata. Un altro paio di maniche è come questa analisi viene portata avanti.

Se si vogliono davvero consultare gli stakeholder in una maniera strutturata e non equivocare su un esercizio che non è uno studio statistico, bisogna avere le idee chiare su cosa si vuole sapere, su chi coinvolgere e su come elaborare i risultati della consultazione affinché siano utili a pianificare obiettivi e azioni, condividerli e farli validare dal top management e dal governo societario per fornire i giusti contenuti alla disclosure aziendale. È un’attività molto time consuming e come tutte le cose, c’è una soggettività intrinseca che determina la qualità del processo. Esistono peraltro oggi degli strumenti molto più sofisticati di un semplice questionario di consultazione per affondare le mani nella massa enorme di dati e informazioni che sono prodotti da norme, report, social media, notizie e letteratura varia dove i temi “materiali” vengono imputati e considerati e ricevono un peso. Database intelligenti e piattaforme cloud-based sono un utilissimo supporto nel sistematizzare i dati provenienti dalle fonti più diverse, consentendo a chi deve utilizzare un’analisi di materialità (purché sappia cosa chiedere allo strumento e come utilizzarne le potenzialità) di risparmiare un’enorme quantità di tempo nella ricerca.

Poi c’è lo stakeholder, o le categorie di stakeholder, che vanno seguiti, incoraggiati e sì, perché no, anche un po’ blanditi e “marcati a uomo” per ottenere dei risultati un minimo interessanti.

I risultati possono essere importanti specie se osservati nel tempo e nella loro evoluzione. Alzi la mano chi non ha ancora riscontrato negli ultimi anni un’impressionante (prevedibile?) crescita di interesse dei temi legati al cambiamento climatico e alla decarbonizzazione dell’economia (quando solo poco tempo fa al massimo si parlava di efficienza energetica) o al benessere delle persone, dipendenti o comunità.

Un altro tema di riflessione è la governance interna (ampiamente discussa in generale in tanti lavori più approfonditi di questo articolo). Certo, non tutte le aziende sono uguali e soggette agli stessi dettami. Ma i processi interni e la ridefinizione di ruoli e responsabilità sono un momento importante della vita di un’azienda specie se sta affrontando un periodo di transizione, di passaggio di identità e di cambiamento di prospettive strategiche e di mercato. E questo vale ad esempio per le aziende che stanno nella filiera energetica e dei servizi industriali in genere.

È evidentemente aumentata la consapevolezza e la responsabilità degli organi di governo societario e la loro chance di interagire con il management che ha messo la sostenibilità al centro della mission aziendale. Da quando è entrato in vigore il D.lgs. 254 il professionista della sostenibilità si trova ora proiettato con costante frequenza nelle sale riunioni dei Consigli di Amministrazione a spiegare, illustrare, proporre varie forme di disclosure e di azioni per raggiungere obiettivi su quei temi oggi più integrati nelle strategie aziendali, nella gestione e nella cultura dell’azienda. Forse ancora non abbastanza su questi ultimi due punti. A questo livello sta contribuendo ora il nuovo Codice di Corporate Governance entrato in vigore nel 2020 ma uno step ulteriore e necessario è di aumentare la competenza specifica nei presìdi degli organi societari su queste tematiche con lo scambio di vedute, anche in momenti dedicati e nei Comitati di Sostenibilità creati all’interno dei Consigli, tra le funzioni interne che garantiscono queste competenze e i componenti degli organi stessi, approccio ormai comune in alcuni grandi aziende.

La chiosa finale e un’ultima riflessione sono dedicate alla professione del sustainability manager. Al di là delle differenze semantiche nella definizione dei titoli, della collocazione organizzativa che recentemente si è di molto rafforzata, dell’orientamento che a volte ancora privilegia gli aspetti puramente relazionali e di comunicazione, questi professionisti d’azienda hanno in mano a pieno titolo  la leadership della discussione poiché sono i soggetti titolati per esperienza, background, conoscenza dei meccanismi aziendali e dei sistemi e capacità di coordinamento e di relazione con tutte le funzioni coinvolte, a gestire e comunicare in maniera corretta dati non finanziari. L’approccio e il background interdisciplinare, le competenze e provenienze professionali diverse ed eclettiche (dall’ingegneria alle scienze sociali, dalla statistica all’ambiente, alla finanza) e la capacità di vedere la sintesi nei problemi complessi ne fanno oggi la più autorevole fonte di competenza e di responsabilità aziendale su questi temi così attuali, specie in un momento in cui ci si chiede, sull’onda dell’emergenza corona virus e di fronte a una pandemia storica che mette in discussione sistemi di produzione e di welfare a rischio di collasso, se la sostenibilità ambientale e sociale non sia in fondo non solo un valore etico ma un paradigma di sopravvivenza che dobbiamo mettere ancora di più al centro di un diverso modello di vita, produzione e consumo di questo pianeta.

Marco Stampa*

* Corporate Sustainability Manager di Saipem Spa e coordinatore del Gruppo di Lavoro DNF del CSR Manager Network. Si ringrazia Maria Ardizzone ed Elena Liverta del team di Sostenibilità di Saipem per gli utili suggerimenti e l’elaborazione di alcuni dati. Ovviamente la responsabilità di quanto scritto è solo dell’autore.

1 commento

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  • MARCOROTA

    Ammetto di essere un profano della DNF; però mi piacerebbe sapere, quando trattate del benessere delle persone, dipendenti o comunità come nel tra virgolette estratto dal suo contributo…
    ” Alzi la mano chi non ha ancora riscontrato negli ultimi anni un’impressionante (prevedibile?) crescita di interesse dei temi legati al cambiamento climatico e alla decarbonizzazione dell’economia (quando solo poco tempo fa al massimo si parlava di efficienza energetica) o al benessere delle persone, dipendenti o comunità”,
    … come esprimete praticamente tale valore immateriale nella DNF.
    Grazie
    Marco Rota

    marcorota48@gmail.com